sez. III. Il torneo: struttura e tipologie

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“Torneamenti si facevano quando si conveniano volenterosamente li cavalieri a combattere dentro a uno palancato per acquistare l’onore; nel quale torneamento l’uno ferisce l’altro a fine di morte, se non si chiama vinto”: così Francesco di Bartolo da Buti, nel suo Commento sopra la Divina Commedia, identificava, nella seconda metà del XIV secolo, i caratteri distintivi del torneo.
Il termine è stato spesso usato impro­priamente per indicare qualsiasi esercizio o competizione cavalleresca, singolare o col­lettiva, mentre era chiara sin dalle origini nella coscienza stessa dei contemporanei la sua differenza dalla giostra, che si caratte­rizzava altrimenti per la presenza di un bersaglio e per l’individualità dell’armeggiamento. Per torneo si intendeva un com­battimento tra squadre o coppie di uomini armati, a piedi ma più spesso a cavallo, che, se nei periodi più remoti si tinse di aspetti cruenti, mantenne comunque nel tempo il carattere di scontro agonistico nel quale una squadra doveva alla fine sopraf­fare l’altra. Il torneo era inoltre occasione di esibizione dell’abilità coreografica nella precisione delle figurazioni collettive che le squadre componevano sul campo nelle fasi precedenti il combattimento. La frase “re­stare padroni del campo” va riferita proprio al torneo e in particolare a quelle che sembrano essere state tra le sue caratteri­stiche principali: il campo, che, a differen­za della giostra, era sempre delimitato da uno steccato, e l’abbattimento-sopraffazio­ne che sanciva la vittoria finale sulla squa­dra avversaria.
Le illustrazioni qui raccolte evidenziano con chiarezza la diversità degli esercizi ar­mati che potevano tenersi in uno stesso luogo (in questo caso la Marienplatz di Monaco di Baviera) e nella stessa occasione (le feste indette per le nozze di Guglielmo di Baviera con Renata di Lorena nel 1568): una giostra alla barriera e un torneo cortese incruento.

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Il combattimento di un torneo, per l’elevato numero dei contendenti e per la scompostezza e l’incontrollabilità della mischia, richiedeva l’imprescindibile presen­za di un recinto che circoscrivesse il luogo dell’azione relegando gli spettatori ai mar­gini. Il campo era delimitato da uno stecca­to rettangolare o circolare provvisto di due ingressi, intorno al quale potevano essere innalzate le gradinate per il pubblico e il palco distinto per i giudici con le tribune per gli ospiti d’onore. Quando il torneo ve­niva giocato in una piazza di città, come accadeva solitamente a Firenze, i balconi e le finestre prospicienti la piazza erano ric­camente addobbati di arazzi e di ornamen­tazioni floreali per accogliere i più illustri cittadini e i visitatori di rango. Nel corso del XVI secolo l’abitudine di indire com­battimenti cortesi all’interno delle città divenne talmente ricorrente da influenzare anche l’assetto urbanistico dei centri abitati perché ci fossero "spazi e largure da disci­plinar cavalli, sì che si possa far giostra”, come scriveva intorno agli anni ‘80 del ‘500 il fiorentino Giovan Vittorio Soderini nel suo Trattato d’agricoltura (Firenze, 1811).
Dopo aver percorso il campo esibendo i preziosi abiti da parata, i cavalieri venivano singolarmente esaminati dall’araldo d’armi che ne controllava la regolarità delle bar­dature e degli accessori, e procedevano poi al combattimento vero e proprio. Lo scopo di ciascuna delle due squadre fronteggianti era quello di sopraffare la parte avversaria per rimanere padrona del campo. In segui­to alla soppressione del combattimento a oltranza, definitivamente attuata solo nella seconda metà del XVI secolo, la conquista del campo fu determinata non più dall’uc­cisione o dal grave ferimento degli avversa­ri ma dall’abbattimento, cioè dalla sopraf­fazione tecnica della parte avversa dovuta a una migliore capacità tattica. Con l’inseri­mento del torneo nei festeggiamenti dell’e­tà barocca, che ne eliminarono la dimen­sione agonistica a favore di quella spettaco­lare, anche l’abbattimento perse la propria importanza, in quanto le sorti del combatti­mento vennero sempre più spesso predisposte fin dall’inizio.

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Per le armi, le armature, i costumi e le insegne dei torneanti vale in gran parte quello che si è già detto delle giostre. Tuttavia, bisogna sgombrare il campo da un equivoco: il torneo non è affatto un insieme di più giostre combattute contemporanea­mente, per quanto sia vero a livello fenomenologico che spesso lo scontro, dopo il primo urto, tendeva a risolversi in una se­rie almeno in apparenza caotica di più sin­golar tenzoni. Resta tuttavia fondamentale il fatto che il torneo ha una sua logica in­terna di tipo unitario ben diversa dalla giostra, e svolge nello spazio cortigiano o citta­dino nel quale viene celebrato un comples­so discorso prossemico che si traduce in una sequenza ordinata di segno l’uno preliminare rispetto al successivo.
Questo andamento “narrativo”, ben più presente nel torneo che nella giostra che tende al momento “risolutivo” dello scon­tro, si presta molto bene a ridurre il torneo a spettacolo, vale a dire dotarlo di com­plessi antefatti che si svolgono in tempi e in ambienti diversi da quello deputato per lo scontro e che coinvolgono non solo i torneanti, ma anche il pubblico degli spettato­ri. Tale sviluppo, che si scandisce sulla mi­sura del romanzo cavalleresco, giunge abbastanza presto (già fino dal tardo Trecen­to, ma con più chiarezza nel Quattro-Cinquecento­) alla vera e propria teatralizzazio­ne del torneo a soggetto (o Pas d’armes per i Francesi, Paso honroso per gli Spagnoli). Se il torneo a soggetto si sviluppa sulla mi­sura narrativa del romanzo cavalleresco per giungere a esiti che si accostano alla commedia, alla tragedia o al melodramma tardorinascimentali, d’altro canto la forte intrusione dell’elemento allegorico-filosofi­co nel torneo traduce anche le fasi prelimi­nari dello scontro (la mostra soprattutto) in complessi spettacoli durante i quali si lanciano messaggi concettuali ispirati alle teo­rie dell’amore, alla filosofia ermetica o alla volontà archeologico-celebrativa di riproporre lo spettacolo dei trionfi romani: così un torneo celebrato nel 1490 a Bologna al cospetto di Alfonso d’Este viene presentato come uno scontro tra Fortuna e Sapienza, con una complessa mobilitazione di appa­rati allegorico-filosofici a sostenere il fatto d’arme fornendogli la dignità d’una vera e propria disputa concettuale.

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Come nel caso della giostra, anche accanto al torneo ebbero sviluppo tipi di armeggiamento collettivo aperti alla parte­citazione di membri di classi sociali non nobiliari: popolani, studenti, borghesi e soldati si cimentavano infatti, tra Medioevo ed Età barocca, in finti e incruenti combat­timenti collettivi. Nei giochi d’arme veniva finto l’assedio e la conquista di una città o di un luogo difeso; così nei castelli l’assalto si concludeva con lo smantellamento di co­struzioni posticce; nei saccomanni, invece, veniva simulato un saccheggio; talvolta, in­fine, si mimavano vere e proprie battaglie. Raramente le contese erano realmente la­sciate alla libera competizione, pur incruenta; più spesso invece il combattimen­to era preordinato e si risolveva nell’inten­sità dell’esibizione coreografica d’insieme.